Sono andato al cinema a vedere Il sopravvissuto – the martian, ultima fatica fantascientifica di Ridley Scott. Il film è tratto dal romanzo The martian di Andy Weir (in italia uscito con il titolo L’uomo di Marte); avendo letto e apprezzato il libro ero curioso vedere come fossero riusciti a realizzare un film partendo da un racconto che è per buona parte il diario dell’astronauta Mark Watney, in cui questi descrive con dovizia di particolari i tentativi di non lasciarci le penne dopo che i suoi compagni di missione lo hanno dato per morto e lasciato su Marte.
Non sto a girarci molto attorno: Il sopravvissuto – the martian mi è piaciuto; di seguito proverò anche a spiegare perché.
Attenzione: nelle prossime righe non potrò garantire l’assenza di spoiler.
Se c’è qualcosa che negli ultimi film di fantascienza mi ha fatto storcere il naso questa è la trama, non certo l’ambientazione o la resa degli effetti speciali. In questo caso ha giocato a favore il fatto che la sceneggiatura ricalchi per buona parte il libro da cui il film è tratto (tanto che la dicitura “based on novel…” durante i titoli di coda sembra quasi un eufemismo), libro dal quale si è opportunamente tagliato qualche episodio per snellire la trama e meglio adattarla al diverso medium. (Non sono tra coloro che pretendono l’assoluta aderenza del film al libro: in un caso si tratta di inchiostro impresso su alberi morti, nell’altro di bobine di polietilene che proiettano immagini in movimento. La differenza mi sembra palese, anche solo considerando la diversa interazione con i fotoni)
Intendiamoci, il libro non spicca per l’originalità della storia: di fatto Weir racconta di un Robinson Crusoe del XXI secolo abbandonato nel mezzo di un deserto rosso e sconfinato, senza Venerdì. Però il romanzo (e di rimando il film) fa bene ciò che deve fare, ovvero raccontare la corsa alla sopravvivenza e il tentativo di riportare sulla Terra Watney sano e salvo, in un alternarsi di momenti faceti e drammatici, dialoghi e monologhi (auto)ironici inframezzati da riflessioni su quanto sia fragile l’uomo Là Fuori.
Nel libro, Weir racconta con dovizia di particolari sia paesaggio e clima marziani che l’equipaggiamento della base di Ares III, descrivendo tecnologie che in molti casi sono già in uso da parte degli astronauti odierni o in via di sviluppo per future missioni sul Pianeta Rosso, tanto che a tal proposito la NASA ha aperto una pagina sul suo sito dove racconta di nove tecnologie reali presenti nel romanzo. Anche questo aspetto è stato riportato (quasi del tutto) fedelmente all’interno della pellicola cinematografica, nella quale il buon Scott riesce forse far meglio del libro: potendo giocare con parlato e immagini nello stesso momento, decide di non eliminare molte delle spiegazioni tecniche, ma – invece di spiegarle pedissequamente allo spettatore ignorante in materia – fa in modo che siano le azioni a rendere comprensibili i dialoghi. E viceversa.
Pertanto, libro e film sono opere di fantascienza che hanno al loro interno molta scienza e poca fanta(sia): di fatto, la cosa più incredibile di tutto il racconto è che la NASA abbia trovato abbastanza soldi per un progetto così ambizioso come la missione Ares. (Sì, va bene, anche che il sopravvissuto Watney resti in vita nonostante le rocambolesche vicissitudini e in barba a ogni enunciato possibile della legge di Murphy, ma forse questo ha a che vedere con una sorta di principio antropico dell’intera narrazione: se il protagonista muore subito forse non ci si scrive un libro, né si gira un film)
Da un certo punto di vista dunque, libro e film funzionano perché – in qualche modo – volano basso, senza per forza porre Grandi Domande alle quali dover fornire altrettanto Grandi Risposte, magari poi non riuscendoci del tutto (chi ha detto Interstellar?), ma allo stesso tempo risultando ben congegnati e coerenti.
L’autore di questo blog ha però un problema, derivato direttamente dalla sua passione per l’astronomia e accidentalmente dal suo percorso di studi: anche al cinema, di fronte a un godibile film di fantascienza, non può fare a meno di notare le minime imperfezioni e incongruenze della rappresentazione cinematografica.
E non riuscendo proprio a tenersi per sé le proprie annotazioni, decide di riportarle qui di seguito.
(Prima del linciaggio da parte dei miei tre lettori, ci tengo a precisare che sono davvero cose minime, la maggior parte delle quali utili alla resa visiva del prodotto; ma visto che – in ultima analisi – qui si parla di divulgazione scientifica, ogni scusa è buona)
La prima osservazione riguarda la tuta indossata su Marte. Nonostante sul Pianeta Rosso le tempeste di sabbia possano essere decisamente dannose, la pressione atmosferica di Marte è in media meno dell’1% di quella terrestre; in quelle condizioni un essere umano senza adeguata protezione si sentirebbe letteralmente bollire i fluidi corporei. Onde evitare spiacevoli inconvenienti di questo tipo, è necessario che le tute per le attività esterne siano in pressione, cosa che non risulta a giudicare dalle morbide pieghe della tuta stessa (vedi immagine sopra).
Contrariamente a quanto mostrato nel film, su Marte i tramonti sono azzurri. Questo a causa della finissima polvere sospesa nella tenue atmosfera marziana. Ne abbiamo prove documentate:

I panorami della Giordania, dove sono stati girati la maggior parte degli esterni per Marte, hanno sicuramente dato un tono epico al paesaggio intorno all’habitat di Ares III, anche se purtroppo la realtà è molto più monotona. Dal punto di vita tettonico, Marte è praticamente un pianeta morto da almeno 100 milioni di anni: con il raffreddamento del nucleo e il conseguente esaurimento della deriva delle placche marziane è terminata anche l’orogenesi marziana. Questo vuol dire tutti i monti di Marte si sono formati quando ancora i dinosauri popolavano la Terra e i rilievi esistenti sono stati costantemente erosi dalla sabbia, rendendoli più simili a colline arrotondate che a vette dolomitiche.
A questo si aggiunga che l’habitat di Ares III si trova in Acidalia Planitia, una pianura sabbiosa qua e là popolata di crateri. Di certo, non un panorama mozzafiato.

Sulla Terra, in vista della scena finale, Venkat spiega che Marte è a “12 minuti-luce da qui. Questo significa che ci vogliono 24 minuti perché arrivi a loro una risposta a qualunque quesito ci sottopongano. Il lancio dura 12 minuti per conto suo. Sono soli.” (Sì, esatto, si sente dire “12 minuti-luce”, al cinema, e con cognizione di causa per giunta. Altro che la rotta di Kessel in meno di 12 parsec. Con tutto il rispetto.)
Poi però parte la sequenza incrociata con scene dall’orbita marziana e sulla Terra, di fatto annullando il gap nelle comunicazioni appena citato. Effetto di straniamento assicurato, almeno per chi scrive.
Il problema è che in questo caso non si può vincere: eliminare le inquadrature sulla Terra (con relativo pathos) durante il salvataggio o differirle di 12 minuti rispetto a ciò che avviene attorno al Pianeta Rosso è in ogni caso un epic fail cinematografico. Qui la correttezza fisica si piega giocoforza alle esigenze filmiche.
Il salvataggio va a buon fine perché Watney raggiunge il comandante Lewis “volando come Iron Man”. L’idea in sé è presente nel libro, proposta da Watney stesso, ma non viene attuata. Perché? Perché Watney sarebbe morto. Buca il guanto di una tuta nello spazio e comincerai a vorticare in maniera incontrollabile su te stesso, rendendo vano ogni tentativo di recupero. È più o meno lo stesso di voler raggiungere la ISS a cavallo di un estintore; Samantha Cristoforetti spiega molto meglio di me perché non è possibile.
Questa è forse l’unica vera spacconata del film, un film che racconta la storia di un uomo che, trovatosi solo, in un luogo ostile, usa tutte le sue conoscenze scientifiche per venirne fuori:
I’m going to have to science the shit out of this.
Non è poco, e per l’astronauta Mark Watney è sufficiente.
Sicuramente meglio che chiedere consigli su facebook.