Il Nobel per la fisica 2019

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Crediti: Niklas Elmehed/Royal Swedish Academy of Sciences

Come ogni pranzo del martedì, in quell’inizio di 1965, il gruppo di cosmologia di Princeton era in riunione. Robert Dicke, Jim Peebles, Peter Roll e David Wilkinson stavano discutendo di come poter misurare sperimentalmente la luce dell’universo primordiale, quando vennero interrotti dallo squillo del telefono. Dicke sollevò la cornetta: all’altro capo del filo c’era un radioastronomo dei laboratori Bell – tale Arno Penzias – il quale cominciò a raccontare di uno strano disturbo presente nel segnale dell’antenna che lui e un suo collega stavano usando per osservare l’emissione radio della Via Lattea, disturbo di cui non erano riusciti a venire a capo e che sembrava provenire da ogni direzione. Forse Dicke i suoi collaboratori avevano idea di cosa potesse essere? Pare che al termine della conversazione le prime parole di Dicke furono: “ragazzi, ci hanno fregato”.
Ciò che Arno Penzias e Robert Wilson avevano cercato inutilmente di eliminare dalla loro antenna era proprio il segnale che i cosmologi di Princeton stavano cercando: la più antica luce osservabile del Cosmo, la Radiazione Cosmica di Fondo (CMBR), l'”eco” del Big Bang. Dopo una visita ai laboratori Bell da parte di Dicke e collaboratori, i due gruppi di ricerca decisero di scrivere ciascuno un articolo: Penzias e Wilson avrebbero descritto il fenomeno, mentre i cosmologi ne avrebbero dato la spiegazione teorica.
Il 17 ottobre 1978 l’Accademia Reale Svedese delle Scienze insignì Penzias e Wilson del premio Nobel per la fisica (in condivisione con Pyotr L. Kapitsa) “per la loro scoperta della radiazione cosmica di fondo”, senza minimamente citare il contributo del gruppo di cosmologia di Princeton.
Robert Dicke non la prese bene.

Nel 1994 Didier Queloz stava terminando il suo dottorato all’università di Ginevra sotto la supervisione di Michel Mayor. Dall’aprile di quell’anno i due si erano messi ad analizzare la luce di svariate stelle a caccia di prove dell’esistenza di pianeti al di fuori del Sistema Solare, i cosiddetti esopianeti. L’idea di per sé era semplice: lungi dall’essere in grado di fotografarli direttamente, la ricerca di eventuali esopianeti si concentrava su metodi indiretti e in particolare sull’influenza che questi avrebbero avuto sulla posizione della stella, che in presenza di un corpo orbitante si sarebbe mossa attorno al baricentro del sistema.
Si trattava dunque di analizzare lo spettro di emissione della stella – la sua luce – per trovare eventuali spostamenti delle linee spettrali per l’effetto Doppler dovuto al moto della stella stessa.
Più facile a dirsi che a farsi.
Per le loro ricerche Mayor e Queloz stavano usando lo spettorografo ELODIE installato presso l’Observatoire de Haute-Provence, uno strumento tra i più avanzati per l’epoca e in grado di misurare velocità radiale delle stelle a partire dai 13 m/s in su. Una sensibilità paragonabile alla perturbazione che il Sole subisce a causa della presenza di Giove, ma comunque troppo grossolana per poter scoprire un pianeta con caratteristiche simili alla Terra. In poche parole: se una razza aliena avesse osservato il Sistema Solare con uno strumento del genere alla ricerca di pianeti probabilmente non avrebbe visto nulla.
I due però non si persero d’animo, anche perché altri gruppi di ricerca stavano facendo misure analoghe, e la posta in palio era molto alta: già nel 1992 erano stati scoperti due esopianeti in orbita attorno a una pulsar, ma ancora mancava la scoperta di un esopianeta attorno a una stella di sequenza principale.
All’inizio del 1995, Mayor e Queloz avevano collezionato gli spettri di emissione di quasi 150 stelle simili al Sole; di queste, una in particolare sembrava essere interessante.
La stella 51 Pegasi deve il suo nome al fatto che è possibile osservarla in direzione della costellazione di Pegaso, il cavallo alato. Il verbo “osservare” qui vale solo se avete una buona vista (e cieli bui): trattandosi della 51° stella in ordine (decrescente) di luminosità all’interno di quella regione di cielo, essa è appena visibile ad occhio nudo.
I dati delle osservazioni relative a 51 Pegasi erano sconcertanti: per rendere conto delle misure era necessario ipotizzare la presenza di un pianeta con una massa pari ad almeno la metà di quella di Giove eppure vicinissimo alla stella, tanto da completare una rivoluzione in appena 4 giorni. Nessun modello dell’epoca prevedeva la possibilità di avere pianeti di tipo gioviano a quella distanza!
Per questo motivo Mayor e Queloz furono molto cauti: nel loro articolo – pubblicato nel novembre 1995 su Nature – chiamarono sempre l’oggetto scoperto “companion” e non “planet”, lasciando aperta la possibilità che si potesse trattare anche di una stella nana bruna. Inoltre proposero interpretazioni alternative per il segnale misurato, ipotizzando macchie solari o pulsazioni della stella, ma concludendo che l’ipotesi del pianeta era comunque la più probabile.
Oggi sappiamo che avevano ragione, e anzi conosciamo centinaia di esopianeti gassosi in orbita stretta attorno alle proprie stelle: sono i cosiddetti “Giovi caldi”, di cui 51 Pegasi b (questo il suo poco fantasioso nome) è stato il capostipite.

Il Nobel per la fisica del 2019 è stato assegnato per metà a James Peebles “per le scoperte teoriche in cosmologia e per l’altra metà a Michel Mayor e Didier Queloz “per la scoperta di un esopianeta in orbita a una stella di tipo solare”.
Sembra quasi che quest’anno l’accademia svedese abbia scelto di premiare persone che con le loro ricerche stanno cercando di trovare risposta a due delle più fondamentali domande dell’uomo: “da dove veniamo?” e “siamo soli?”

Oltre che per le sue ricerche successive, il premio a Jim Pebbles sembra anche una parziale compensazione dello “sgarbo” del 1978, quando il Nobel venne assegnato unicamente a Penzias e Wilson, senza neppure una citazione al gruppo di cosmologi che aiutò i due radioastronomi a capire che ciò che avevano tra le mani non era un semplice disturbo ma un vero e proprio segnale proveniente dal passato dell’universo.
(Pebbles è l’unico ancora in vita del gruppo di cosmologia di Princeton e purtroppo il Nobel non può essere assegnato postumo)
La scoperta e il successivo studio della Radiazione Cosmica di Fondo ha dato fondamento alla teoria del Big Bang e fatto luce su molti aspetti della fase primordiale del Cosmo; forse non ha davvero risposto alla domanda “da dove veniamo?” ma sicuramente ci ha fatto fare dei passi in avanti nella comprensione dell’origine dell’Universo.

La scoperta di 51 Pegasi b nel 1995 ha dato il via alla scoperta dei sistemi esoplanetari: ad oggi conosciamo più di 4000 esopianeti; di questi, una discreta percentuale è rocciosa e si trova a una distanza dalla propria stella compatibile con la presenza di acqua liquida. Fino a una ventina di anni fa non avevamo idea se i sistemi planetari fossero comuni o se il Sistema Solare si trattasse di una fortunata eccezione; oggi ipotizziamo che circa la metà delle stelle della Via Lattea ospiti almeno un esopianeta.
Non abbiamo (ancora) trovato una risposta alla domanda “siamo soli?” ma possiamo affermare che di posto, almeno nei dintorni, ce n’è.

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. yaxara ha detto:

    Grazie per questa meravigliosa spiegazione!
    (Per inciso, la scoperta di Penzias è legata al famoso fenomeno della “botta di culo”, per cui si cerca ancora una spiegazione)

    1. Emanuele Balboni ha detto:

      Di nulla! (Diciamo che si è trattato di una buona dose di serendipità, dai. Chiariamo: il Nobel a Penzias e Wilson è stato assolutamente meritato – non vorrei che dall’articolo si capisse il contrario; i due hanno certamente avuto la lungimiranza di non scartare il fenomeno come un semplice disturbo, ma non citare neanche chi ha ne ha dato la spiegazione teorica è stata un po’ una schifezza)

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