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Il problema dei neutrini solari / 1

L’esperimento di Ray Davis per la rivelazione dei neutrini solari all’interno della miniera di Homestake. Crediti: U.S. Department of Energy

Alcuni tra i telescopi più grandi del mondo non si trovano nei deserti cileni o arroccati sui pendii di vulcani più o meno estinti nel bel mezzo dell’oceano, bensì nei profondi recessi delle miniere e nei trafori alpini, protetti da chilometri di solida roccia. Non studiano la luce delle stelle, ma guardano lontano nell’universo osservando i neutrini.

Lo sviluppo della fisica atomica all’inizio del XX secolo aveva portato a una teoria soddisfacente riguardo ai meccanismi che permettono al Sole di splendere: l’ipotesi che la nostra stella possa essere un enorme reattore nucleare era in grande accordo con le misure sperimentali riguardanti composizione chimica, dimensioni, luminosità e longevità.
Restava però un problema: si trattava di misure indirette. Mancava ancora la prova schiacciante, la misura di un qualcosa proveniente direttamente dal nucleo del Sole, in grado di fugare ogni dubbio. Magari una particella prodotto diretto di quelle reazioni di fusione nucleare ipotizzate nel core1.

Guardare dentro il Sole (è difficile come sembra)

Quando nel 1955 Raymond Davis si mise in testa di guardare direttamente dentro il Sole il neutrino era ancora una particella ipotetica – sarebbe stata scoperta l’anno successivo – ma in teoria aveva tutte le carte in regola per poter assolvere un compito del genere.
I suoi primi tentativi di avere un segnale utilizzando un rivelatore posizionato sei metri sottoterra non portarono risultati, ma l’annuncio della scoperta della particella da parte Cowan e Reines e i sempre più accurati calcoli teorici riguardanti tasso di produzione e energia dei neutrini solari convinsero Davis della bontà dell’idea: bisognava semplicemente dotarsi di un rivelatore più grosso, e scendere ancor più nelle viscere della Terra.

Ma come è possibile osservare una particella talmente sfuggente da attraversare il Sole senza interagire?
Intanto, di queste particelle, è necessario averne a bizzeffe, in modo da aumentare la probabilità che almeno qualcuna si faccia vedere. In linea di principio questo non era un problema, dato che i calcoli teorici prevedevano un tasso di produzione di neutrini solari spropositato. Certo, di tutti i neutrini provenienti dal Sole sarebbero stati facilmente rilevabili solo quelli più energetici; ciò nonostante le stime erano incoraggianti.
In seconda istanza bisogna avere un grosso esperimento, perché – ovviamente – le probabilità che un neutrino interagisca con l’apparato sperimentale sono tanto più elevate quanto maggiore è il tempo esso che impiega ad attraversare l’esperimento stesso.
L’interno dell’apparato poi dev’essere riempito di qualcosa che permetta al neutrino di lasciare traccia di sé. Viste le quantità richieste, questo qualcosa è consigliabile che sia a buon mercato: nei moderni rivelatori di neutrini di solito si usa acqua, arrivando in certi casi a sfruttare porzioni del Mar Mediterraneo o del ghiaccio antartico.
All’epoca invece si scelsero i composti del cloro, cloro che si sarebbe convertito in Argon a seguito dell’interazione con un neutrino. Estraendo l’Argon dal rivelatore e contandone gli atomi si sarebbe potuto ricavare il numero di neutrini che avevano interagito con l’esperimento in un dato lasso di tempo.
Infine è necessario installare l’esperimento sottoterra, il più lontano possibile da interferenze che potrebbero generare segnali spuri nell’apparato, di fatto rendendo impossibile distinguere le eventuali interazioni dovute ai neutrini.

E naturalmente bisogna trovare qualcuno che finanzi il tutto.

Agli inizi degli anni sessanta Davis e il giovane astrofisico John Bachall si misero alla ricerca di un luogo dove costruire l’esperimento e dei fondi necessari per realizzarlo. Trovarono alcune miniere in disuso che sarebbero state adatte allo scopo, ma ancora mancavano i soldi. Gli astrofisici erano convinti che a finanziare quel tipo di ricerca dovessero essere i dipartimenti di fisica nucleare, dato che si parlava di particelle elementari. D’altro canto, i fisici delle particelle sostenevano che la ricerca riguardasse il Sole, e che quindi il costo dovesse essere sostenuto dagli astrofisici. Su una cosa entrambi gli schieramenti erano d’accordo: l’esperimento era così complesso che difficilmente avrebbe osservato alcunché.

I due impiegarono qualche anno e una buona dose di furbizia per poter trovare i finanziamenti necessari2, ma all’inizio del 1965 poterono cominciare i lavori per la costruzione del rivelatore. Fu quindi assemblato un serbatoio con una capacità di 400000 litri a 1200 m di profondità nella miniera di Homestake, nel South Dakota; serbatoio che venne successivamente riempito grazie a un treno merci carico di… detersivo! In effetti all’epoca il modo più economico per dotarsi di grandi quantità di cloro era acquistare – letteralmente – vagonate di tetracloroetene (C2Cl4), un comune smacchiatore usato ai tempi dalle lavanderie a secco.

I conti non tornano

L’esperimento entrò in funzione nel 1966 e per due anni Davis si dedicò a contare gli atomi di Argon generati all’interno del serbatoio. Quando nel 1969 pubblicò i primi risultati, c’erano notizie buone e notizie cattive. Le buone notizie erano che l’esperimento sembrava funzionare ed effettivamente c’era un segnale lasciato dai neutrini provenienti dal Sole: Davis era stato il primo a rilevare i neutrini solari! La notizia cattiva era che i conti non tornavano: la quantità di neutrini provenienti dal Sole era poco più di un terzo di quella attesa.

Le reazioni all’articolo di Davis non si fecero attendere.
Da un lato, per i fisici delle particelle quella era la dimostrazione che gli astrofisici parlavano a vanvera di cose che non conoscevano, e che il loro modello di Sole era sbagliato; dall’altro gli astrofisici sostenevano di essere nel giusto, dichiarando semmai che erano i particellari a non avere le idee chiare riguardo alla fisica del neutrino. Su una cosa entrambi gli schieramenti erano d’accordo: molto probabilmente nell’esperimento c’era qualcosa che non andava.
Forse Davis si era perso per strada dei nuclei di Argon? Oppure i calcoli teorici di Bachall, su cui Davis si basava, contenevano degli errori?
Per fugare ogni dubbio, i due misero mano uno all’apparato l’altro a carta e penna, rivedendo, correggendo, migliorando sensori e calcoli… ma il risultato non cambiò: dopo altri 4 anni di misure il problema dei neutrini solari era sempre lì.

Di chi è la colpa?

C’è da dire che i fisici delle particelle dell’epoca non avevano tutti i torti: a causa della difficoltà di osservare nel dettaglio caratteristiche di fenomeni così lontani, spesso gli astrofisici si trovavano a dover trarre conclusioni a partire da pochissimi dati, cosa che in passato aveva portato a un paio di cantonate notevoli. Ma, neutrini a parte,  il modello di Sole funzionava così bene…
D’altra parte non è che gli astrofisici sbagliassero nel sostenere che la fisica del neutrino era acerba. Giusto per fare un esempio, non si sapeva che massa avesse la particella, anzi: non era neppure chiaro se effettivamente il neutrino dovesse avere una massa oppure no. In compenso si era scoperto di neutrini ne esistevano di diversi tipi (o sapori): infatti al neutrino dell’elettrone (νe) nel 1962 venne affiancato il neutrino muonico (νμ) che interagiva in maniera diversa rispetto al primo3.
Questa novità poteva in qualche modo risolvere il problema dei neutrini solari? Beh, apparentemente no; perché se da un lato è vero che l’esperimento di Homestake non era in grado di vedere i neutrini muonici (non sarebbero stati in grado di interagire con il Cloro producendo Argon) è anche vero che la teoria prevedeva che all’interno del Sole venissero prodotti unicamente neutrini elettronici.

Così, agli inizi degli anni settanta, il tentativo di misurare il flusso di neutrini provenienti dal Sole aveva sollevato più questioni di quante non ne avesse risolte; la discrepanza tra dati sperimentali e teoria messa in luce dall’apparato nella miniera di Homestake poteva significare che:

Per più di un decennio la questione rimase in sospeso: Davis continuò a prendere dati misurando l’Argon prodotto, dati che rimanevano in pervicace disaccordo con i calcoli di Bachall; mentre nessun altro nella comunità scientifica si voleva prendere il mal di pancia di provare a replicare l’esperimento.

(continua)


1. ^ Vi sfugge il nocciolo della questione? Provo con un esempio cinematografico. Se voi foste due ladruncoli da strapazzo, cosa pensereste vedendo la casa che avevate in mente di svaligiare con le luci accese e la musica a tutto volume? Che i proprietari siano tornati anzitempo dalle vacanze natalizie. Invece potrebbe essere solo il piccolo Kevin McCallister che vi sta facendo fessi con un paio di manichini e un cartonato di Michael Jordan. E se il parallelo non vi è chiaro, andatevi a rivedere questa scena di Mamma ho perso l’aereo.

2. ^ L’esperimento fu finanziato dal Brookhaven National Laboratory, il cui direttore, Maurice Goldhaber, era un fisico nucleare con un’opinione decisamente poco lusinghiera nei confronti degli astrofisici. Davis riuscì a convincerlo sostenendo che, se l’esperimento non avesse rivelato il flusso di neutrini atteso, sarebbe stata la riprova che gli astrofisici non sapevano di cosa stavano parlando.

3. ^ Nel 2000 è stato infine scoperto un terzo sapore di neutrino – il neutrino tauonico o ντ – andando così a completare lo schema relativo ai leptoni del Modello Standard delle particelle.

 

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