Cosa fa splendere il Sole? / 2

Crediti: NASA/SDO and the AIA, EVE, and HMI science teams.
Crediti: NASA/SDO and the AIA, EVE, and HMI science teams.

Nel XIX secolo era pensiero comune tra i fisici che quasi tutto fosse stato scoperto. Il fisico matematico Pierre Simon Laplace arrivò a sostenere che, conoscendo con esattezza posizione e velocità di ogni particella esistente, si sarebbero potuti calcolare passato e futuro dell’intero universo applicando le leggi fisiche note all’epoca.
Dello stesso avviso doveva essere il fisico tedesco Philipp von Jolly alla fine del 1800, dato che cercò di dissuadere un giovane Max Planck dallo studiare fisica, perché

in questo campo quasi tutto è già stato scoperto e non resta che colmare qualche lacuna poco importante.

Si trattava – dunque – di aggiungere giusto qualche cifra decimale qui e là1.
(per fortuna non venne ascoltato)

C’erano ovviamente diverse questioni in sospeso, ma si riteneva che una maggior conoscenza delle variabili in gioco avrebbe spazzato via ogni contraddizione in merito a quei fenomeni che ancora non avevano spiegazione.

Alcune di queste faccende poco chiare riguardavano il Sole.
Della nostra stella erano ormai note con buona precisione distanza, massa, dimensioni, luminosità; ma qualcosa mancava all’appello.
Ad esempio, grazie allo studio dello spettro solare, era stato possibile ricavare in maniera indiretta la temperatura superficiale del Sole, nonostante mancasse una teoria in grado di spiegare quella correlazione tra temperatura e emissione luminosa di un corpo evidenziata dagli esperimenti in laboratorio.
Sempre dallo studio della luce solare si riuscì a determinare la composizione chimica della nostra stella – principalmente un mix di idrogeno e un elemento fino ad allora sconosciuto, che fu opportunamente battezzato elio – anche se nessuno capiva per quale meccanismo i diversi elementi chimici potessero lasciare la propria “firma” emettendo o assorbendo solo determinate lunghezze d’onda.

Ma soprattutto mancava una spiegazione plausibile riguardo a quale meccanismo faccia splendere il Sole.
Gli scienziati dell’epoca le avevano provate tutte, dalle reazioni chimiche di ossidazione all’impatto di asteroidi, passando per le leggi dei gas e della termodinamica: nulla era in grado di spiegare la luminosità del Sole per un tempo superiore a un centinaio di milioni di anni. Troppo poco, secondo i geologi che studiavano le formazioni rocciose terrestri, convinti che la Terra fosse molto più vecchia.

Per fortuna qualcosa si stava muovendo.
Nei primi anni del XX secolo si capì che l’atomo è composto di particelle. Con la scoperta del protone (1919) e successivamente del neutrone (1932) si affermò il modello atomico che oggi conosciamo: un nucleo composito circondato da una nuvola elettroni. A dispetto del nome – che significa “indivisibile” –  queste scoperte dimostrarono che l’atomo può essere diviso eccome.

Un atomo instabile può trasmutarsi attraverso i naturali processi di decadimento radioattivo, oppure può essere fatto deliberatamente a pezzi se bombardato con altre particelle (fissione nucleare). Si può anche agire al contrario, formando un atomo  pesante a partire da nuclei di elementi più leggeri (fusione nucleare). Ma, soprattutto, se queste operazioni vengono fatte con gli atomi giusti, si libera un sacco di energia.

Dopo aver scritto nell’arco dei primi mesi del 1905 tre articoli scientifici rivoluzionari, l’annoiato impiegato dell’ufficio brevetti di Berna Albert Einstein decise di scriverne un quarto, tre paginette al cui interno compare la formula fisica più famosa al mondo:

E = Δm c2

Si chiama “equivalenza massa-energia” e sostanzialmente dice che massa e energia sono  la stessa cosa. Quando Einstein la ricavò non pensava agli atomi, quanto piuttosto a generici corpi che diminuiscono la loro massa emettendo energia sotto forma di radiazione elettromagnetica, ma funziona alla perfezione anche con gli elementi chimici.
Ad esempio, un nucleo di Elio-4 (4He) è composto da 2 protoni e 2 neutroni, per un totale di 4 nucleoni. La cosa interessante è che la somma delle masse dei nucleoni considerati separatamente è maggiore della massa del nucleo di 4He.
Insomma, con buona pace di Aristotele, il tutto è minore della somma delle parti. Almeno per certi elementi.

Ma che fine ha fatto la massa mancante, è sparita? No: come afferma la formula qui sopra si è trasformata in energia. Possiamo dunque prendere quattro protoni, quattro nuclei di idrogeno, e fondendoli assieme2 otterremo un nucleo di elio più energia (principalmente) sotto forma di luce.

Questo almeno in teoria, perché bastano due calcoli per capire che tentare di avvicinare anche solo due protoni tra loro richiede condizioni al contorno proibitive. Poiché due particelle con la stessa carica elettrica si respingono con forza tanto maggiore quanto più sono vicine, la pressione necessaria per costringere due protoni a fondersi assieme formando un nucleo più pesante è enorme.
Condizioni simili non esistono naturalmente sulla Terra, né in superficie né al suo interno; per consentire la fusione spontanea dell’idrogeno sono necessarie temperature e pressioni che possono essere raggiunte solo nel nucleo di corpo molto più grande e massiccio del nostro pianeta, qualcosa come… il Sole.

Fu Arthur Eddington, nel 1920, il primo a proporre che fosse un qualche tipo di reazione nucleare a far splendere il Sole, ma fu principalmente il lavoro di Hans Bethe e Charles Critchfield alcuni anni più tardi a dare all’idea l’aspetto di una solida ipotesi scientifica. E, al contrario delle ipotesi precedenti, il tutto sembrava tornare sorprendentemente bene.

Il Sole è fondamentalmente un’enorme palla composta per la maggior parte di idrogeno. All’interno del suo nucleo temperatura e pressione raggiungono valori tali da permettere ai protoni di vincere la repulsione coulombiana che li terrebbe ben lontani gli uni dagli altri e fondersi a formare nuclei più pesanti attraverso una serie di reazioni nucleari che vanno a formare la cosiddetta catena protone-protone.

catenappI
Il braccio principale della catena protone-protone, responsabile di più dell’80% dell’energia emessa dal Sole. Il bilancio netto della reazione è la produzione di un nucleo di elio-4 (4He), positroni (e+), neutrini elettronici (νe) e luce (γ) a partire da quattro protoni (p).

In accordo con Einstein, l’energia E irradiata dalla catena di reazioni è pari alla differenza di massa Δm tra il prodotto (nucleo di elio) e i reagenti (4 protoni) moltiplicato per la velocità  della luce (c) al quadrato. Il valore per la singola catena p-p è di circa 27 MeV (Mega elettronvolt) o, se preferite, una quantità di energia sufficiente a tenere accesa la vostra lampadina LED a bassissimo consumo per… 1 miliardesimo di secondo circa!
Per fortuna, all’interno del Sole vengono prodotti qualcosa come 1038 nuclei di elio-4 ogni secondo, rendendolo l’astro luminoso che conosciamo.

Ogni secondo, dunque, un numero enorme di protoni prende parte alle reazioni di fusione nucleare, ma non si tratta che di una minima quantità della massa complessiva.
Come già detto infatti, solo il core – il nucleo del Sole – ha temperatura e pressione tali da permettere le reazioni, e anche lì è solo una frazione dei protoni presenti ad avere l’energia sufficiente ad avvicinarsi a sufficienza e innescare il processo di fusione. Se voi foste un protone nel nucleo del Sole, passereste in media un miliardo di anni a spintonarvi a vicenda restando a distanza di sicurezza prima di acquisire l’energia necessaria ad avvicinarvi a un vostro simile!
Ciò fa si che la riserva di protoni all’interno del nucleo del Sole si consumi molto lentamente e che il Sole possa splendere per miliardi di anni ininterrottamente.

A metà del XX secolo, il mistero su cosa alimenti il Sole sembrava finalmente risolto: i processi di fusione nucleare fornivano una spiegazione in accordo con i dati sperimentali allora a disposizione; dalla composizione chimica alle dimensioni, dalla luminosità all’età presunta della nostra stella.

Ma non si era del tutto soddisfatti: nonostante il modello teorico funzionasse molto bene, mancava ancora la soddisfazione di una misura diretta dei fenomeni in atto all’interno del Sole. L’unico modo per fare una misura del genere è quello di vedere i neutrini prodotti dalle reazioni di fusione, dato che riescono ad attraversare il Sole senza interagire e giungere sulla Terra portando informazioni di prima mano sui processi in atto nel core.
Il primo apparato sperimentale in grado di rilevare neutrini solari venne inaugurato nel 1966 nei cunicoli sotterranei della miniera di Homestake in Sud Dakota. Quella che sarebbe dovuta essere una misura con il solo scopo di confermare una teoria ormai solida rivelò però una sorpresa: la quantità di neutrini provenienti dal Sole era all’incirca un terzo di quella attesa.
La penuria di neutrini solari poteva indicare un basso tasso di reazioni nucleari, con ovvie ripercussioni sul modello di Sole inteso come enorme fornace nucleare; qualcuno arrivò addirittura a chiedersi se il Sole non si stesse spegnendo3.
Oppure, poteva essere indice del fatto che ancora non si era capito qualcosa a livello della fisica nucleare, delle particelle subatomiche e delle loro interazioni.
Di sicuro sottolineava che ancora non si aveva una risposta definitiva alla domanda: “cosa fa splendere il Sole?”

(continua)


1. ^ Si noti l’evidente understatement.

2. ^ Sì, ho saltato qualche passaggio: quella che produce un nucleo di elio a partire da quattro protoni non è una, bensì un insieme di reazioni nucleari, la cosiddetta catena protone-protone (vedi più avanti).

3. ^ F.E. Close, “Is the Sun still shining?”, Nature, v. 284, 1980, pp. 507–508

 

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. Federico ha detto:

    Bellissimo articolo! Vero che non devo aspettare 2 anni per il proseguio? 🙂

    1. Emanuele Balboni ha detto:

      No, stavolta faccio più in fretta 😎

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