Dove sono tutti quanti? / 3

L'Hubble Ultra Deep Field.  Crediti: NASA, ESA, H. Teplitz and M. Rafelski (IPAC/Caltech), A. Koekemoer (STScI), R. Windhorst (Arizona State University), and Z. Levay (STScI)
L’Hubble Ultra Deep Field.
Crediti: NASA, ESA, H. Teplitz and M. Rafelski (IPAC/Caltech), A. Koekemoer (STScI), R. Windhorst (Arizona State University), and Z. Levay (STScI)

Non ci sono

L’idea che la Terra sia l’unico luogo dell’intero Universo osservabile a ospitare la vita fa istintivamente a pugni con la vastità di ciò che i moderni telescopi stanno osservando. È sufficiente guardare un’immagine dell’Hubble Ultra Deep Field, dove si possono individuare decine di migliaia di galassie in una minuscola porzione di cielo, per farci credere che in tutta quella abbondanza deve esserci qualcun altro. Ma i grandi numeri possono fornire piccoli risultati, quando ci si confronta con probabilità molto basse.

Nel 1961 Frank Drake scrisse l’equazione che porta oggi porta il suo nome; equazione che nella sua forma standard è più o meno così:

N = R* ⨯ fp ⨯ ne ⨯ fl ⨯ fi ⨯ fc ⨯ L

L’equazione di Drake dovrebbe fornire il numero N di civiltà extraterrestri esistenti in grado di comunicare nella nostra galassia (ma si può generalizzare ed estendere anche all’intero Universo osservabile), un risultato che si ottiene moltiplicando tra loro una serie di valori quali il tasso R* di formazione stellare all’interno della Via Lattea, la percentuale di stelle che ospitano sistemi planetari (fp), la frazione di quei sistemi che contengono pianeti simili alla Terra e che posseggono le condizioni per lo sviluppo della vita (ne), e così via.

Ben lungi dal voler essere una descrizione completa del problema, l’equazione di Drake potrebbe tuttavia fornire un’indicazione di massima; purtroppo però non è sufficiente conoscere l’equazione per poterla risolvere, anche quando si tratta di una formula semplice come quella scritta sopra. In questo caso la difficoltà non è algebrica, quanto piuttosto che nella maggior parte dei casi abbiamo solo vaghissime idee sui valori da inserire al posto dei fattori che la compongono. Se da un lato abbiamo ormai un’idea di massima sul tasso di formazione stellare R* e il numero di sistemi planetari osservati attorno ad altre stelle sta superando le più rosee aspettative di qualche anno fa, la faccenda diventa critica quando si comincia a parlare di vita.

Quali sono le condizioni che dovrebbero rendere un pianeta in grado di ospitare la vita? Purtroppo noi al momento conosciamo un solo pianeta sul quale si siano sviluppati esseri viventi – il nostro – e un solo caso è un ben magro campione con cui fare della statistica. Col senno di poi sappiamo che la Terra si trova alla giusta distanza da una stella di media grandezza a sua volta situata in una regione non troppo trafficata della Via Lattea; è un pianeta roccioso con un campo magnetico in grado di deviare buona parte dei raggi cosmici e delle particelle del Vento Solare che altrimenti raggiungerebbero la sua atmosfera in quantità, vi orbita attorno un grosso satellite che ne stabilizza l’asse di rotazione, alle sue spalle ha un fratello maggiore (Giove) che si prende la maggior parte dei possibili impatti con asteroidi e comete di passaggio nella zona,… l’elenco sarebbe ancora lungo. Sono tutte condizioni necessarie per rendere il pianeta abitabile? E nel caso, quanto è probabile che si manifestino tutte assieme?

Quand’anche ci fossero svariati pianeti con le giuste condizioni, non è detto che la vita laggiù si sviluppi per forza. Poiché non sappiamo neppure come abbia avuto origine sulla Terra, a maggior ragione non abbiamo idea di quanto la comparsa della vita possa essere frequente, una volta incontrate le giuste condizioni.
Al riguardo, abbiamo informazioni discordanti. Se prendiamo i 20 amminoacidi usati dagli organismi terrestri e li combiniamo a caso, le probabilità di ottenere una delle proteine presenti oggi nel nostro organismo è all’incirca una su qualche miliardo di miliardi di miliardi di mil… ho reso l’idea. Roba che al confronto navigare con successo in un campo di asteroidi diventa una passeggiata.
Per contro, sembra che sul nostro pianeta la vita abbia attecchito con velocità incredibile. Sono state trovate evidenze di primi esseri viventi poche centinaia di milioni di anni dopo la fine dell’Intenso bombardamento tardivo (l’ultima violenta pioggia di asteroidi che generò, tra l’altro, gran parte dei crateri che oggi possiamo osservare sulla Luna); un lasso di tempo che in termini geologici è un’inezia.
Di nuovo, ci si scontra col fatto che un singolo caso non è rappresentativo, e non abbiamo abbastanza elementi per trarre conclusioni attendibili.

A causa delle numerose incertezze riguardo i fattori che la compongono, l’equazione di Drake può fornire risultati molto diversi: si va da svariati milioni di civiltà extraterrestri nella nostra galassia a N=1, cioè solo noi (i più cinici in realtà sostengono che, allo stato attuale, non vi siano prove dell’esistenza di civiltà – extraterrestri o meno – all’interno della Via Lattea).

Il silenzio di questi anni non ci dice che siamo soli, ma un prolungato silenzio, nonostante i nostri sforzi per comunicare con altre forme di vita, renderebbe l’eventualità della nostra solitudine una possibilità sempre più probabile.

Ma se davvero siamo soli nell’Universo, perché tanta abbondanza, là fuori?
Se la vita è davvero così rara, allora tutta quell’abbondanza è servita a permettere la nascita di una civiltà i cui membri, ora, stanno studiando le profondità del cosmo chiedendosi: “siamo soli?”. Semplicemente, con probabilità molto basse, servono grandi numeri per piccoli risultati.

Ma se davvero siamo soli nell’Universo, se davvero siamo un unicum emerso dalla miriade di possibilità perdenti nel confronto con probabilità infinitesime, forse allora faremmo bene a darci da fare per meritarcelo.

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